21/12/11

IL SOLSTIZIO D'INVERNO

Ogni anno il 21 dicembre le popolazioni pagane - custodi di una visione cosmoteandrica ed emanazionistica della natura - celebravano, ognuna seguendo le proprie particolari tradizioni, il solstizio d'inverno, simbolo di morte e resurrezione. Questa ricorrenza rituale ha da sempre avuto una importanza determinante per le culture sacrali perché rappresenta la fine e l'inizio di un nuovo ciclo in cui il Sole impersonifica la forza invitta, cioè la forza che vince l'oscurità. Infatti, durante questo periodo dell'anno, il Sole dà l'impressione di morire gettando l'umanità nelle tenebre per poi invece rinascere e così facendo donando agli uomini energie rigeneranti. Il solstizio d'inverno costituì una specie di punto critico, vissuto secondo una particolare drammaticità in cui la luce della vita sembrava estinguersi, tramontare, sprofondarsi nella terra desolata e gelata o nelle acque o fra le cupe selve, da cui però ecco che subito di nuovo si rialza a risplendere di nuovo chiarore. Come nella "radura" (lichtung) heideggeriana, sorge una vita nuova, si pone un nuovo inizio, si apre un nuovo ciclo: la luce della vita si riaccende.

Nell'epoca della secolarizzazione e del nichilismo, dove ogni istante accresce la diffidenza e tutto non è che condizionamento e catalogazione, il rimosso dello "spirito dei tempi" è l'incanto e il sacro, ossia ciò che stimola nell'uomo il pensiero e lo spinge a interrogarsi sul significato dell'ignoto. L'invisibile scuote le certezze razionali dell'uomo, lo pone nudo dinanzi alla costatazione della sua contingenza. L'uomo è parte olistica di una spirale cosmica e può vivere questa condizione destinale con una tragica serenità, perché in essa percepisce la manifestazione della bellezza della natura e dell'uomo stesso, che è natura, ma non è solo natura. Quando manca tutto ciò viene meno il significato dell'Essere, il nostro senso di appartenenza al vivente e la complementarietà armonica tra anima e corpo, interiorità ed esteriorità. Noi viviamo nel divenire e il tempo scandisce il ritmo delle nostre ansie e delle nostre gioie ricordandoci costantemente lo stato d'incertezza in cui riversa la vita terrena, celando la profondità del suo significato, che rimane oscuro senza il confronto ineludibile con la morte. La verità sta nella consapevolezza di vivere con coscienza questo abisso, che è fonte di dolore ma contemporaneamente di serenità, perché diversamente dalla orizzontale superficialità dominante, nella consapevolezza tragica si è capaci di ascoltare il nostro animo ed evocare la verticalità spirituale, l'axis mundi, l'eterno. Per dirla con Friedrich Hölderlin: “Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”. Non abbiate paura, l'innocenza non ha tempo.

Nessun commento: