17/07/09

LE RISORSE IDRICHE IN ITALIA

Una sintesi dello studio di GIANCARLO TERZANO_Fare Verde Campobasso

Il mondo vive in una situazione di crisi idrica potenziata soprattutto da una crescita demografica esponenziale sia in Africa che in Asia (Cina, India, Indonesia). L’Italia anche è una penisola che nonostante la sua ricca potenzialità sta diventando sempre più a rischio. Una rilevante fetta della popolazione nazionale del Sud, non ha una grande disponibilità di acqua potabile. La colpa non è solo della siccità, del mutamento climatico o del progressivo inaridimento di alcune aree meridionali ed insulari, ma è data dal pressappochismo dovuto ad una incapacità gestionale ed arretrata della risorsa oro blu, fatta oggetto sia di sperpero economico che di continuo ed ininterrotto spreco.

LE DISPONIBILITA’ DELLA RISORSA ACQUA
L’Italia è potenzialmente molto ricca di acque, me è evidente che i mutamenti climatici in corso incideranno ancora di più sulla disponibilità inferiore della risorsa acqua. Le previsioni, com’è noto, parlano di un aggravarsi della siccità e della progressiva “desertificazione” di alcune aree dell’Italia insulare e meridionale, cui si contrapporrebbe una “tropicalizzazione” delle aree centro-settentrionali, con aumento della piovosità dovuta soprattutto a violenti e potenti rovesci. Se gli effetti della desertificazione del Sud sulla disponibilità di acque sono facilmente immaginabili, non illudiamoci neanche sugli effetti dell’aumento della piovosità nelle altre regioni: vista anche la particolare conformazione del territorio nazionale (ricco di pendii), aggravata dalla cementificazione del letto dei fiumi e dalla riduzione delle aree boschive, piogge più violente non comporteranno un maggiore assorbimento dell’acqua caduta ma semmai un più rapido deflusso verso il mare.

I PRELIEVI E GLI USI
Tra i settori d’impiego, la parte dominante è svolta dall’agricoltura, seguono l’industria, gli usi civili, l’energia (essenzialmente al Nord) e, più limitatamente, il turismo. L’agricoltura è decisamente il settore più idroesigente. A livello nazionale, oltre il 50% delle risorse sono, infatti, destinate ad usi irrigui, soprattutto nel Sud e nelle Isole (meno “assetati” sono invece i campi dell’Italia centrale, che richiedono il 40% dell’acqua prelevata in zona). Il sistema, tuttavia, appare tutt’altro che impeccabile, ed anzi la produttività dell’acqua nell’agricoltura italiana è tra le più basse dell’Unione Europea. L’irrigazione, inoltre, spesso attinge alle falde sotterranee, al cui inquinamento – come vedremo - a sua volta contribuisce con i concimi ed i pesticidi. Del resto, a dover essere denunciata, è proprio la “logica industriale” che sottende ormai all’agricoltura, e che porta ad un utilizzo irresponsabile e non rinnovabile degli elementi naturali, suolo ed acque innanzitutto.
Il prelievo per usi industriali è sul livello del 20-30% rispetto al totale. Di tali quantità soltanto il 2-3% viene consumato propriamente per bere o per l’alimentazione, mentre il resto è assorbito dallo sciacquone (30%), da lavastoviglie e lavatrici (30%), dal bagno, o doccia, e dagli altri usi, lavaggio dell’auto compresa. Irrinunciabile, quindi, appare la creazione di una rete duale, che consenta di riservare l’acqua potabile agli usi più delicati, mentre per scarichi e usi-extradomestici si potrebbe utilizzare acqua non trattata.
L’acqua per usi domestici, infine, proviene in gran parte dalle falde sotterranee (l’85% del totale), in genere meno inquinate di quelle superficiali e che quindi richiedono minori trattamenti; al Sud e nelle Isole, rilevanti sono anche gli invasi artificiali, da cui si ricava acqua potabile nella misura del 15-25%. Pressoché assenti, invece, i processi di dissalazione dell’acqua marina, che invece forniscono acqua ad altri paesi del Mediterraneo, come Spagna, Malta o Cipro.

GLI SPRECHI E LE CARENZE
Non tutta l’acqua prelevata finisce per essere concretamente utilizzabile. È quantificato circa del 27% del totale, l’acqua che si perde tra il prelievo e l’effettiva erogazione. Il dato è più o meno omogeneo per tutto il territorio nazionale (si passa dal 23% del Nord al 30% del Sud e delle Isole) e pone, purtroppo, anche stavolta l’Italia nelle posizioni di vertice nella classifica degli spreconi d’acqua tra i Paesi europei.
La causa di questi sprechi è, innegabilmente, strutturale. La rete idrica italiana necessiterebbe di adeguamenti e dell’investimento di ingenti risorse economiche volte a migliorare il sistema di adduzione e distribuzione, gli impianti di depurazione e le reti fognarie (le cui carenze contribuiscono all’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee), la formazione del personale addetto. Lo spreco di acqua è aumentato, arrivando, come detto, all’attuale 27%, contro il 17%, ad esempio, registrato nel 1975. Particolarmente eloquente è la figura 1, dove vengono raffrontate le quantità di acque addotte, immesse in rete, erogate all’utenza e, per contro, disperse, nel 1975 e nel 1987: in sostanza, dopo 12 anni di invecchiamento del sistema, la maggiore quantità di acqua addotta ed immessa in rete nel 1987 è finita soprattutto dispersa. L’inadeguatezza del sistema idrico (ma anche la disomogeneità della disponibilità delle risorse) fa sì che, paradossalmente, nonostante la grande disponibilità di acque immesse in rete, in molte zone della penisola l’acqua potabile resti un bene raro.

ACQUE MINERALI
Un discorso a parte meritano i consumi di acque minerali.
Gli italiani hanno il duplice primato di essere il popolo che, in Europa, consuma più acqua per usi domestici, ma anche di quello che ne beve di meno. La nostra, ovviamente, non è minor sete; semplicemente, ci abbeveriamo con acqua minerale. E infatti siamo in testa ai paesi europei come i maggiori consumatori di acque minerali, con 140 litri a testa, prima di belgi (124 litri) e tedeschi (99 litri); ultimi gli olandesi, con 17 litri pro-capite (la stima è del quotidiano tedesco Die Zeit, per il nostro periodico Altroconsumo, invece, i litri consumati dagli italiani sarebbero stati 155 a testa).
L’alto consumo di acque minerali è dovuto, innegabilmente, a diversi fattori: ci sono, sicuramente, gusti personali e talvolta indicazioni mediche, ma essenzialmente c’è sfiducia nei confronti dell’acqua potabile di casa.
Sotto accusa, oltre alle vere e proprie emergenze di inquinamento, è soprattutto il processo di potabilizzazione tramite clorazione. Per eliminare i batteri, e quindi il rischio di infezioni sanitarie, si ricorre essenzialmente al cloro, che però dà all’acqua un odore ed un sapore spesso sgradevoli. In alternativa al cloro, in alcuni comuni si sta già sperimentando un diverso processo di potabilizzazione tramite ozono e raggi ultravioletti, anche allo scopo di scongiurare la formazione di trialometani (THM), quei composti prodotti dalla clorazione di cui alcuni studi hanno sostenuto la tossicità.
Ciò che, però, viene facilmente dimenticato, grazie anche al solito martellamento pubblicitario, è che anche le acque minerali (che a differenza di quella a casa si paga) sono tutt’altro che più pure dell’acqua dei rubinetti. Anzi, a rigore, esse possono anche essere non potabili a norma di legge e contenere sostanze chimiche in limiti superiori a quelli ammessi per l’acqua degli acquedotti. Ulteriore aspetto negativo è la “privatizzazione” delle acque. Le acque minerali, come ogni altra acqua in Italia, sono di proprietà pubblica. Il loro sfruttamento da parte dei privati avviene su concessione da parte delle Regioni, che in cambio ottengono soltanto le briciole. L’operazione di esproprio della collettività (che si vede privata, nei fatti, dell’accesso a fonti in precedenza libere) a favore dell’imbottigliatore avviene in cambio di una misera contropartita. A trarne i benefici economici sono soprattutto le multinazionali del settore. Il sistema delle acque minerali, infatti, è a forte concentrazione, e due soli soggetti (la Nestlé, proprietaria in Italia dei marchi San Pellegrino, Levissima e Panna, e la francese Danone, cui appartengono Ferrarelle e San Benedetto) rappresentano più del 30% dell’intero mercato mondiale, con consistenti quote, come s’è visto, anche in Italia.

LA QUALITA’ DELLE ACQUE
Non è possibile, ovviamente, definire in maniera unitaria la qualità delle acque nazionali. Per fissare gli obiettivi di qualità, si differenziano 6 tipologie di “corpi idrici significativi” (corsi d’acqua superficiali, laghi, acque marino-costiere, acque di transizione, corpi idrici artificiali, acque sotterranee) e 4 tipologie di “acque a specifica destinazione” (acque destinate alla potabilizzazione, di balneazione, idonee alla vita dei pesci, idonee alla vita dei molluschi). Per le acque a specifica destinazione, la qualità, quindi, è data dalla possibilità di una precisa utilizzazione da parte dell’uomo, dei pesci o dei molluschi, mentre per i corpi idrici significativi, la qualità è data non solo dal rispetto di parametri prefissati ma anche dalla capacità dei corpi idrici stessi di “mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate”.
Per le acque destinate alla potabilizzazione (superficiali o sotterranee), l’art. 7 del D.Lgs. 152/99 prevede da parte delle Regioni una classificazione in base alle caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche. Sono state così individuate tre categorie: l’A1, per cui è sufficiente un trattamento fisico semplice e la disinfezione, l’A2, per cui si prevede un trattamento fisico e chimico normale più la disinfezione, l’A3, che necessita di trattamento fisico e chimico spinto con affinazione e disinfezione. Se l’acqua è al di fuori di queste tre categorie, essa non è utilizzabile per usi potabili, a meno che non ci siano alternative d’approvvigionamento, nel qual caso anche acque inferiori ai valori della categoria A3 possono essere potabilizzate, sempre dopo adeguato trattamento. Per le altre acque ad uso specifico, la situazione è la seguente. Per le acque destinate alla balneazione (parliamo esclusivamente di acque dolci), l’82% dei laghi sono risultati favorevoli (quindi balenabili), mentre per i fiumi la percentuale positiva è più bassa, e si assesta sul 49,5% del totale campionato. Per le acque ritenute idonee alla vita di pesci e molluschi, la Relazione sullo stato dell’ambiente 2001 parla di una qualità rimasta sostanzialmente buona, e talvolta anche migliorata (anche se non mancano i casi di non conformità ai parametri).
Tra i cd. corpi idrici significativi, ci limitiamo ad uno sguardo ai corsi d’acqua e alla falde sotterranee. Per i fiumi, lo stato della qualità è di difficile definizione, a causa della parzialità dei dati disponibili e dei divergenti sistemi di monitoraggio. Tra attività industriali e agro-zootecniche, insediamenti urbani e captazioni per uso energetico (che riducendo la portata del fiume incidono anche sulla sua capacità di depurarsi), i nostri fiumi ce la devono proprio mettere tutta per autodepurarsi. Con risultati alterni: il Po, ad esempio, riesce a ripulirsi e a mantenere una qualità media (ben peggiore è la situazione di molti suoi affluenti); non ce la fa proprio, invece, il Tevere, le cui capacità di autodepurazione sono annullate dai troppo frequenti scarichi che incontra nel suo cammino.

LA GESTIONE
A gestire i quasi 50.000 impianti (tra acquedotti, reti di distribuzione e fognarie, depuratori) che costituiscono il sistema idrico italiano, per anni ci hanno pensato una miriade di soggetti, con un’elevatissima frammentazione gestionale. E’ parere unanime che tale estrema frammentazione abbia costituito uno dei punti dolenti del sistema idrico nazionale, ostacolandone l’ammodernamento strutturale e gestionale e condannandolo all’inefficienza.

BENE COMUNE O RISORSA LIMITATA?
La politica tariffaria ed il superamento della gestione diretta da parte dei Comuni hanno fatto parlare di rischio “privatizzazione” per le acque. Tale allarme è stato lanciato, in particolare, dal Comitato per il Contratto Mondiale sull’Acqua, un coordinamento di ong e associazione varie, che sostiene la natura di bene comune e patrimonio dell’intera umanità delle acque, e conseguentemente il diritto di tutti ad accedervi.
In effetti, più che appartenere alla categoria dei beni mercificabili, l’acqua è innanzitutto un’esigenza vitale, come l’aria che respiriamo. Conseguentemente, un elementare senso di giustizia porta a ritenere che essa debba essere garantita a tutti e che vada respinta l’idea che il suo valore (e l’accesso ad essa) possano essere determinati dalle regole del mercato. Nel contempo, essa però è anche una risorsa naturale non illimitata, che va sottoposta ad un uso razionale, senza sprechi e nel rispetto anche delle generazioni future e di tutto l’ambiente.
La legge Galli cerca di conciliare le due esigenze, stabilendo, da un lato, che le acque devono essere utilizzate nel rispetto di “criteri di solidarietà” e, soprattutto, che “tutte le acque superficiali e sotterranee … sono pubbliche”.
Non crediamo sbagliato il principio che l’acqua vada pagata. In una società opulenta e consumistica come quella italiana, dove i nostri redditi vengono impiegati per mille beni voluttuari e spesso completamente inutili, il principio “politico” (prima ancora che economico) che un bene prezioso e da usare con parsimonia debba essere pagato ci appare più che fondato. Non si tratta di mercificare un bene essenziale, né di voler assoggettare al “Dio mercato” una risorsa vitale, bensì di spingere le persone, tramite lo strumento che realisticamente più comprendono (il loro portafoglio) ad un uso oculato della risorsa acqua. Introducendo tutti i rimedi sociali per evitare che le fasce più disagiate siano escluse dall’accesso al bene, ma anche utilizzando lo strumento tariffario (con una progressione per fasce di consumo, ed anche fissando limiti massimi al consumo stesso) per dissuadere dagli sprechi la stragrande maggioranza delle persone, spesso attente più alla lucentezza dell’automobile che allo sperpero della preziosa risorsa acqua.
Tale finalità è per sua natura opposta a quella perseguita da privati, i quali, pur dovendo gestire una risorsa secondo criteri economici, hanno comunque l’intento di massimizzare il profitto, e quindi di vendere il più possibile, anche se ciò può significare l’esaurimento delle scorte nel giro di pochi decenni. In tale senso, condividiamo le preoccupazioni per gli appetiti che l’acqua-business (e non solo quello delle minerali) sta suscitando in grandi gruppi economici, ed auspichiamo che il pubblico non rinunci alla sua gestione.

Qualche consiglio per un corretto utilizzo…
Per Fare Verde non esistono soltanto le responsabilità pubbliche. Favoriti dal basso costo dell’acqua (le tariffe italiane sono tra le più basse d’Europa), anche noi, troppo spesso, dimentichiamo che l’acqua è una risorsa preziosa e non illimitata. Di seguito riportiamo alcuni consigli per un uso più responsabile dell’acqua. Tracciato il solco, siamo sicuri che ognuno saprà aggiungere altre accortezze, vincendo con il suo buon senso le cattive abitudini e la pigrizia.

-evitare di lasciare inutilmente i rubinetti aperti;
-applicare ai rubinetti un frangigetto, che riduce il consumo di acqua senza ridurne la potenza del getto;
-preferire la doccia al bagno: oltre che più veloce, la doccia fa consumare dai 30 ai 50 litri, contro 150-180 di un bagno; chiudere il rubinetto quando ci si insapona;
-ridurre la portata dello sciacquone, che consuma almeno il 30% dell’acqua domestica;
-are controllare spesso gli impianti domestici da personale specializzato, senza sottovalutare mai le perdite;
-usare lavatrici e lavastoviglie solo a pieno carico e inserire programmi economizzatori ove possibile;
-riciclare l’acqua della bollitura della pasta per lavare i piatti: essendo ricca di amidi, oltre a far risparmiare l’acqua, sgrasserà le stoviglie, facendo risparmiare anche il detersivo;
-innaffiare le piante al mattino o, meglio, al tramonto, usando acqua di pozzo o piovana, dove possibile; in casa, riciclare per le piante l’acqua usata per il lavaggio delle verdure;
-non sprecare l’acqua potabile per il lavaggio delle automobili: arriverà la pioggia!

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